2010 - Photoshop v. 800.1 - ©2024 Roberto Caccialanza | Ricerca, fotografia, pubblicazioni, mostre

Vai ai contenuti
STORIA DELLA FOTOGRAFIA A CREMONA
PHOTOSHOP v. 800.1

Photoshop v. 800.1
Il ritocco delle lastre fotografiche


Articolo pubblicato su questo sito il 15 novembre 2010.

Le antiche tecniche di ritocco fotografico su lastre di vetro.
Come si realizzava il ritocco. Un raffronto con il materiale cremonese,

Entriamo nel dettaglio delle tecniche di ritocco fotografico su lastre, procedimenti ormai pressoché dimenticati per quanto riguarda l’operatività manuale su vetro, ma rinvigoriti ed esaltati dalle molteplici possibilità che offre la tecnologia dei computer e dei software, come ad esempio Adobe Photoshop.

Faccio alcune premesse che ritengo indispensabili. Innanzitutto non bisogna dimenticare che, soprattutto nei primi decenni della fotografia, gli operatori si proponevano spesso sia in veste di fotografi che di pittori e mantennero tale denominazione fino agli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento, ciò anche per ‘mascherare’ l’eventuale insuccesso in una o nell’altra attività. In secondo luogo, fin dalla più ancestrale tecnica fotografica del dagherrotipo, i fotografi-pittori desideravano che le proprie opere, oltre che essere una perfetta riproduzione del reale, ne avessero anche i colori; ecco che il legame fotografo-pittore si confermava determinante, perché chi non era in grado di colorare adeguatamente le proprie fotografie -a meno che non fosse un eccellente operatore di ripresa e stampatore- veniva considerato in modo inferiore da chi produceva immagini dipinte. Come avviene tutt’oggi, l’immagine della persona ritratta era determinante per il suo successo: dunque, soprattutto nel caso di fotografie di personaggi di spicco nella società Ottocentesca come politici, facoltosi, reali, militari, ecc., essi volevano apparire al meglio, senza difetti. Non dimentichiamo che a quei tempi il fatto di andare a farsi fotografare significava apprestarsi ad un avvenimento raro e di massima importanza, per il quale ci si agghindava a festa (abiti, pettinature, gioielli e trucco per le donne). Spettava dunque ai fotografi il compito di rendere perfette le persone ritratte, di ‘giocare’ con le luci e le angolature in fase di ripresa, mentre sul prodotto finale (vetro, metallo o carta che fosse) si sbizzarrivano con ritocchi in nero o a colori. Quella del ritocco fu un arte che determinò la fama o il declino di tanti fotografi dell’Ottocento: si trattava di un arte che spesso era tramandata di padre in figlio o dal proprietario dello stabilimento al più abile fra i propri collaboratori, scelto con lo scopo (e la speranza) che il nome e il prestigio della propria bottega si sarebbe tramandato e magari accresciuto- negli anni a venire.
L’intento di questo articolo è di parlare e di spiegare il ritocco fotografico su lastre di vetro, che erano abitualmente spesse 4-5 millimetri, ottenute dal fabbricante tramite colatura, taglio con diamante e successive puliture delle due facce affinché fossero prontamente utilizzabili dal fotografo. L’ennesima pulitura avveniva in acqua riscaldata nella quale venivano disciolti carbonato di soda e calce spenta; dopo i risciacqui in acido cloridrico e acqua pura le lastre erano messe ad asciugare prima di venire pulite ulteriormente e per l’ultima volta dal fotografo con acqua iodata. A questo punto entravano in scena l’albumina (l’albume dell’uovo, pratico, economico, facile da reperire), che serviva per applicare e far aderire lo strato fotosensibile sulla lastra, e il collodio, sostanza liquida di consistenza sciropposa simile alla mucillagine, ricavata dalla decomposizione del fulmicotone (o cotone fulminante) in un miscuglio di alcool e di etere. Il processo al collodio o collodion, inventato dal chimico tedesco Christian Shönbein nel 1846, poteva essere preparato dall’utilizzatore finale ma, essendo tale preparazione molto instabile e delicata, si preferì acquistarla già confezionata non appena ne iniziò la commercializzazione. Inizialmente le lastre venivano sensibilizzate con il collodio umido nel momento in cui si realizzava la fotografia, operazione assai poco pratica dato che richiedeva numerosi passaggi da eseguirsi necessariamente in un laboratorio attrezzato a camera oscura; successivamente, nel 1850, Gustave le Grey mise a punto il procedimento del collodio secco che favorì notevolmente le attività dei fotografi e dei dilettanti i quali poterono avere sempre e ovunque a disposizione una scorta di lastre già pronte all’uso. La posa per impressionare la lastra nel modo corretto a quei tempi richiedeva in media due minuti, dopodiché le lastre passavano allo sviluppo e al fissaggio.
Dopo una doverosa spiegazione di ‘cosa c’è prima’, è il momento di parlare del ritocco fotografico nella pratica. Come anticipato il ritocco doveva servire generalmente a rimediare i difetti derivanti dalle fasi di applicazione dello strato chimico sensibile, di ripresa (luci errate, movimenti involontari, cattive espressioni o difetti del viso come nei, occhi chiusi, capelli arruffati, nel caso dei ritratti) e di sviluppo. Il materiale necessario al ritoccatore si riduceva a poca cosa: una sorta di leggio che i francesi chiamavano pupitre, formato da tre telai uniti da cerniera che, aperti, assumevano la forma di Z e al cui fondo si trovavano uno specchio o un foglio di carta bianca che rifletteva la luce sulla lastra posta superiormente al fine di avere una corretta visione in trasparenza; occorrevano poi un completo assortimento di matite, sfumini di carta o in pelle e dei pennelli, nonché del carminio, del giallo e del blu di Prussia (i pigmenti venivano sciolti a 30-40° di temperatura, dopo di che si filtravano attraverso carta), dell’inchiostro di China da sciogliere in acqua zuccherata, grafite, della vernice speciale da ritocco da diluire con acqua ragia, un ago da cucire abbastanza grosso e infine una idonea lente d’ingrandimento (fra i 7 e i 10 cm di diametro). Il ritoccatore si avvaleva poi di una soluzione di essenza di trementina e di gomma Dammar che, passata sulla parte da ritoccare, creava una superficie adatta per intervenire con il lapis (la matita). Nel caso delle vedute il lavoro di ritocco era relativamente facile in quanto si limitava, generalmente, alla riduzione dei forellini prodotti nello strato fotosensibile dalla presenza di polvere assorbita durante le fasi di preparazione; in questo caso lo sfumino permetteva di mascherare i buchi rendendoli omogenei alle attigue zone impressionate. Se nei primi piani i caseggiati riuscivano troppo illuminati, quasi bianchi, i fotografi dell’Ottocento intervenivano applicando una soluzione di prussiato rosso di potassa, diffusa nell’intera area sovraesposta con piccoli e rapidi tocchi delle dita; se invece si avevano delle masse di verdi troppo opache era possibile intervenire applicando carta trasparente sulla quale si tratteggiava e sfumava a matita o con piombaggine (grafite). Nella maggior parte dei casi, quando nell’immagine si trovavano figure troppo piccole, se ritenute sfuocate o fuori luogo nell’inquadratura, potevano essere addirittura cancellate. In altre situazioni e con particolari accorgimenti si potevano modificare dettagli, accentuare l’effetto dell’erba o degli alberi, ma il cielo era la parte più frequente e delicata da ritoccare: se si voleva trasferire un’immagine perfetta su carta di solito si realizzavano due negativi, uno per il solo paesaggio, l’altro per il cielo (erano comunque in commercio diverse varietà di cielo); in fase di stampa si mascheravano prima l’uno poi l’altro al fine di ottenere un’unica immagine. Se fra le ‘lastre Betri’ degli anni Sessanta-Ottanta dell’Ottocento non risultano molte correzioni e quelle esistenti non sono di particolare qualità: un esempio di quanto affermo risiede in una fotografia panoramica a volo d’uccello su Cremona, eseguita dalla torre delle ex Ceramiche Frazzi nel 1903 su lastra trattata con gelatina bromuro d’argento da uno degli allievi di Aurelio Betri, Alessandro Novaresi, dove risulta palese la correzione del cielo: il fotografo (o il ritoccatore) ricostruirono la forma irregolare delle nuvole ma in questo caso l’intervento è stato troppo pesante e balza immediatamente all’occhio. Inoltre l’immagine è stata ritoccata con vernice blu dove si trovano gli alberi in primo piano e sulla punta del camino minore. Anche nel caso di una lastra di ‘A. Betri e figlio’ che ritrae il palazzo Comunale (lastra n. 119), realizzata presumibilmente alla fine dell’Ottocento, il ritocco a mano per restituire lo scuro del loggiato è grossolano e creato in modo piuttosto maldestro. Stessa cosa vale per un'altra fotografia di ‘A. Betri e figlio’ scattata nel medesimo periodo in piazza Pescherie (odierna piazza della Pace, lastra n. 110): oltre alle nuvole ‘artificiali’ si deve notare l’evidente e volontaria accentuazione della colonna che sorregge la statua.
Si ripropose dunque l’esigenza, da parte dei fotografi dell’Ottocento, di conoscere essi stessi le tecniche del fotoritocco o di potersi affidare ad artisti capaci. Da quanto ho potuto constatare nello scorrere le parecchie lastre negative originali depositate presso le Istituzioni cittadine, a Cremona nell’Ottocento non vi fu mai alcuno che fosse in grado di eseguire ritocchi ad arte. Della carenza di ritoccatori in città ci si lamentava già nel 1868, infatti ‘La Provincia Cremonese’ del 6 novembre riportò che “quando il signor Betri ebbe ottenuto l’ingrandimento al naturale delle fotografie, queste dovevano essere ritoccate dalla mano laddove la luce aveva lasciato un diffetto nella tinta e dove era bisogno di far meglio risaltare il contorno; ma invano si è cercato fra i nostri allievi di disegno chi sapesse por mano alla fotografia e correggere le imperfezioni della luce, per cui dovette per quest’opera di puro complemento ricorrere altrove”. La situazione pare sia migliorata alla fine dell’Ottocento e inizi del Novecento con l’arrivo del pittore (in seguito anche valente fotografo) Amedeo Salanti e della coppia Edoardo Gerola-Egidio Boni, i quali si avvalsero di quello che all’epoca fu definito un ottimo ritoccatore, Pietro Bortolo Sirati.
Sito autoprodotto da Roberto Caccialanza
É vietata la riproduzione di testi e immagini
La ricerca storica,
che divertimento !!!
Torna ai contenuti